Da Industria 4.0 a 5.0: cosa cambia davvero?

Sostenibilità, rapporto uomo-macchina, intelligenze artificiali e automatismi. Le sfide che la cosiddetta quarta rivoluzione industriale ha lasciato insolute sono diverse e complesse.
Parlare di Industria significa, teoricamente, proporre un nuovo approccio che tenga conto delle sfide socio-culturali contemporanee con gli strumenti tecnologici che le imprese hanno a disposizione oggi.

Si parla di resilienza, inclusione, attenzione ai diritti sociali e all’ambiente.
Ma quante di queste parole potranno effettivamente trasformarsi in fatti? Quanti di questi concetti possono effettivamente essere inclusi nel tessuto imprenditoriale italiano nel 2023?

In questo editoriale ho deciso di esporre la mia opinione a riguardo e proporre una lettura approfondita, olistica e il più possibile completa di quali sfide comporta implementare i concetti e i precetti dell’industria 5.0.

Cos’è l’industria 4.0

La naturale evoluzione del concetto di Industria 4.0 proposta dall’Unione Europea si pone come una Collaborative Industry: un modello di impresa caratterizzato dalla cooperazione tra macchine ed esseri umani, con l’obiettivo di creare prodotti che rispettino le esigenze dei consumatori e della società in generale.

Facciamo però un passo indietro.

Il primo bando dello Stato Italiano pensato per favorire la transizione definita Industria 4.0 viene pubblicato nel 2015. Esso viene comunicato e promosso come una vera e propria rivoluzione industriale, in pochi ricordano che questo concetto nasce in Germania come strategia di marketing.

Durante un evento commerciale del 2012, il responsabile commerciale di una divisione di automazione industriale della Bosch per l’Europa e il Nord Africa la chiama Zukunftsprojekt Industrie 4.0. È una strategia basata sull’idea di ottimizzare l’integrazione di automazioni e raccolta dati all’interno delle aziende, con l’obiettivo implicito di Bosch di vendere meglio i propri sensori.

Mi chiedo, può una strategia di marketing ben riuscita trasformarsi in una rivoluzione, in un paradigma in grado di modificare radicalmente i processi metodi, i metodi e gli approcci produttivi?

Proviamo a ragionarci insieme.

L’industria 4.0 è stata davvero una “rivoluzione”?

La Prima Rivoluzione Industriale ha come punto di partenza l’introduzione delle macchine a vapore nei reparti produttivi nella seconda metà del 1700.

Nel 1870, grazie all’elettricità, ai prodotti chimici e ai nuovi processi produttivi che di conseguenza si poterono attivare, nasce la produzione di massa di prodotti sempre più standardizzati. Ha inizio così la Seconda Rivoluzione Industriale.

L’informatica e l’elettronica danno avvio alla Terza Rivoluzione Industriale nella seconda metà del 1900.

Rivoluzioni, perché hanno cambiato radicalmente abitudini, vita quotidiana degli individui, processi di produzione ma anche di consumo, nate da scoperte ed evoluzioni tecniche che hanno un impatto dirompente sulla vita di ogni cittadino del mondo.

La cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale, a mio parere, ha un impatto decisamente meno dirompente.

Viviamo in un mondo nel quale i tempi sono sempre più brevi e aspettare cento anni - come il divario temporale fra una rivoluzione e l’altra - ci sembra impossibile.

Parliamo già della Quinta Rivoluzione Industriale e di Industria 5.0.

Cos’è l’industria 5.0?

Secondo la visione dell’Unione Europea, la versione di Industria 5.0 completa il paradigma di Industry 4.0, evidenziando la ricerca e l’innovazione come motori per una transizione verso un’industria europea sostenibile, centrata sull’uomo e resiliente. “L’industria 5.0 è in grado di apportare benefici all’industria, ai lavoratori e alla società”.

Nel documento presentato a gennaio 2021 dall’Unione Europea dal titolo “Industry 5.0 – Towards a sustainable, human-centric and resilient European industry” vengono delineati i caratteri del nuovo paradigma Industria 5.0 definiti su richiesta della Commissione Europea, dalla Task Force del CEPS (Center for European Policy Studies). 
In realtà il termine Industria 5.0 è stato coniato da Michael Rada nel 2015, quando in Italia si inizia a formalizzare e parlare di Industria 4.0. Egli sostiene un ritorno alla centralità delle persone, dell’ambiente, del contesto sociale e culturale nel processo industriale.
Sulla stessa linea appare il concetto di “Society 5.0” ideato nel 2016 dalla Keidanren, la più importante federazione imprenditoriale giapponese.

Tale concetto sottolinea l’importanza di bilanciare lo sviluppo economico attraverso la risoluzione dei problemi socio-ambientali, in un contesto nel quale le tecnologie non vengano usate solo per profitto ma per migliorare effettivamente la qualità della vita di ogni cittadino.

Per il giapponese Keiju Matsushima l’evoluzione dell’ambito industriale verso il paradigma 5.0 deve essere correlata all’evoluzione della società, con l’utilizzo delle innovazioni focalizzate sulla risoluzione di problemi sociali, e non solamente sul miglioramento della produttività. E nel 2018 Esben H. Østergaard, co-inventore dei Cobot UR, sostiene che l’industria 5.0 è “il ritorno del tocco umano nella produzione”.

Alla luce di queste riflessioni è chiaro come il ruolo delle tecnologie informatiche in una Società 5.0 sia dedicato all’impegno in diversi ambiti della vita quotidiana con il fine ultimo di garantire il benessere per ogni cittadino.

Le attività di ricerca, sviluppo e innovazione non hanno quindi uno scopo meramente economico o di profitto, ma si trasformano in elementi centrali della transizione verso una modalità di industria europea che metta al centro del processo produttivo le persone, l’umanità e il rispetto di quel benessere che dovrebbe essere un diritto riconosciuto da lavoratori e consumatori.

Industria 5.0: l’essere umano al centro

Il passaggio da Industria 4.0 a 5.0 avviene attraverso un profondo e radicale cambio di prospettiva e di paradigma.
Se la prima fa riferimento ai concetti di efficienza e produttività basati sulle cosiddette “tecnologie abilitanti”, la seconda vuole essere una vera e propria rivoluzione culturale: un paradigma focalizzato sulle persone, sulla qualità della vita, sull’ambiente e sulla sostenibilità.

Un processo dove l’essere umano è al centro. La sostenibilità guida ogni processo e la “resilienza” è una caratteristica imprescindibile.

Ma quanto c’è di concreto, veritiero, realistico dietro questo concetto?

Se le prime tre rivoluzioni industriali sono state la conseguenza di scoperte dell’uomo, la quinta, così come avvenuto per la quarta, nasce da una decisione politica che mira a influenzare l’industria produttiva.

Con il concetto di umano-centricità, Industria 5.0 vuole mettere l’essere umano al centro dei processi di produzione. Allo stesso modo, la tecnologia viene utilizzata a servizio della qualità della vita dei cittadini e dei lavoratori, e non viceversa.

In un mondo ideale, mi piacerebbe vedere, come bella conseguenza, la sviluppo di processi di formazione e crescita dei singoli focalizzati anche dal punto vista umano, relativo alla cultura personale, slegati dal mero processo produttivo.

Se dobbiamo davvero mettere l’essere umano al centro, forse sarebbe ora di investire davvero nelle persone che stanno all’interno dell’azienda e non solo nei lavoratori.

Sarà davvero un vantaggio in termini assoluti?

Fra i termini scelti dall’Unione Europea per definire l’Industria 5.0 c’è la resilienza.

Un concetto positivo ma solo se pensiamo alla sua definizione psicologica (“la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà”), certo ben diverso nella definizione più ampia data dall’Unione Europea stessa (“... è capace di reagire ai cambiamenti improvvisi, anche traumatici, senza riportare conseguenze permanenti. È un’industria che ha sviluppato un alto grado di robustezza nella produzione, che garantisce alti livelli di continuità operativa e disaster recovery, che ha una capacità produttiva adattabile e processi commerciali flessibili, in grado di garantire prodotti e servizi anche in caso di eventi straordinari, come pandemie, catastrofi naturali, cambiamenti geopolitici.”).

Un’industria resiliente è un’industria che si sforza, che si appesantisce, costretta a fare i salti mortali e che di certo non pone il rispetto dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei cittadini al centro!

Mi permetto, in questa sede, di dare un’ultima chiave di lettura sul concetto di Industria 5.0 su un aspetto a mio parere molto importante: l’uso di robot e automazioni per i lavori ripetitivi.

Queste cosiddette “stupid things” vengono evitate ai lavoratori, si dice, così che possano concentrarsi sul valore aggiunto dato da caratteristiche più umane come la creatività, l’estro, lo studio, la competenza.

La domanda che mi pongo è: sarà davvero un vantaggio in termini assoluti?

Ne avevo già scritto nel mio libro Dialogo sulle passioni pubblicato nel 2020, ma desidero qui riprendere il tema e approfondirlo a distanza di qualche anno, partendo proprio da brano del mio libro: «Ciò che sta succedendo adesso nell’automazione più spinta, grazie alla robotica e all’intelligenza artificiale, mette in discussione i fondamenti di questo modello [il capitalismo], riducendo o addirittura distruggendo il potere d’acquisto di tante persone.”
  
A conferma della necessità di dedicare da parte dei governi forte attenzione al tema, riporto la valutazione fatta da “quelli che contano” e riportata da un articolo di Wired del 17 settembre 2018: “I timori riguardo alla perdita dei posti di lavoro causata dalla massiccia meccanizzazione e robotizzazione della produzione potrebbero non essere così giustificati. A dirlo è un report pubblicato oggi dal World Economic Forum (Wef), che stima un incremento pari a circa 60 milioni di nuovi posti di lavoro nei prossimi 5 anni proprio grazie all’inserimento di robot e intelligenza artificiale nel mondo del lavoro. Ciò non toglie che molti lavori verranno comunque persi entro il 2025, ma nel complesso il saldo sarà positivo, sostiene il report. Secondo il Wef oggi le aziende hanno una maggiore consapevolezza delle potenzialità legate ai software di automazione della produzione impiegati nei diversi settori.

La visione complessiva è dunque più positiva rispetto alle stime del 2016. Grazie a questa nuova fiducia nelle macchine si possono creare non soltanto dei nuovi posti di lavoro ma anche delle vere e proprie nuove professioni. Inoltre, ci saranno sicuramente dei significativi cambiamenti nella qualità, nelle modalità e nei ruoli di nuovi lavoratori.

Il report si basa sui dati raccolti da uffici risorse umane, strategie esecutive e amministratori delegati di oltre 300 compagnie internazionali con un ampio ventaglio di produzione. Questi rappresentano quasi 15 milioni di impiegati nelle maggiori 20 economie emergenti (quasi il 70% dell’economia globale). Sebbene il 50% delle compagnie si aspetti di ridurre i propri impiegati entro il 2022 come conseguenza dell’automazione produttiva, il 40% è più possibilista e positivo, e crede che nell’automazione del lavoro ci possano essere potenzialità di crescita ed espansione occupazionale.

Secondo i dati riportati, all’interno delle compagnie prese in esame, si stima che entro il 2022 ci sarà una perdita di 984.000 posti di lavoro e un aumento di 1,74 milioni. Sulla base di questo trend calcolato sulla forza lavoro di grandi aziende che non operano nell’agricoltura, globalmente 75 milioni di posti di lavoro potrebbero essere persi per via di un cambiamento nella divisione del lavoro tra uomini e macchine o algoritmi, mentre 133 milioni di nuovi ruoli potrebbero emergere nell’adattamento alla nuova divisione del lavoro, con un netto di 58 milioni di nuovi posti creati. Ad oggi il 71% delle mansioni totali orarie è svolto da uomini e solo il 29% dalle macchine.

Entro il 2022 le percentuali potrebbero essere di 58% umani e 42% macchine.»

Oggi, dopo 5 anni, posso affermare che la valutazione positiva riportata si è dimostrata decisamente falsa.   

Industria 5.0 e sostenibilità

Un altro concetto rilevante che merita un approfondimento riguarda la sostenibilità. L’Industria 5.0 vuole definirsi sostenibile, un aggettivo che rischia di avere implicazioni puramente teoriche fin quando non sarà possibile estenderlo a livello globale.

Attualmente, il bisogno di salvaguardare il pianeta a discapito del profitto (o quantomeno con la stessa importanza) è un tema rilevante solo per una limitata fascia territoriale e a una minoritaria parte della popolazione mondiali.

Il mondo industriale ha, senza alcuno scrupolo, subappaltato da decenni larga parte delle produzioni più inquinanti e logoranti a nazioni dove il valore della vita e il rispetto del pianeta sono ben poca cosa.

Mi chiedo, quindi, quanto l’importanza di garantire i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere quelli delle generazioni future possa essere più di uno slogan, quanto i concetti di riutilizzo, riciclo, ottimizzazione dei consumi e delle emissioni possano trasformarsi in qualcosa di più di semplici buoni propositi.

Conclusioni

La storia ci aiuta a interpretare il domani. Cercare di comprendere il passato e il presente ci aiuta a far luce sulle dinamiche del futuro. Approfondendo questi concetti, allora, bisogna domandarsi: cosa succederà ai posti di lavoro? Io non penso ci sia un equilibrio fra quelli persi, fra i lavoratori sostituiti dai robot e i posti nuovi.

In fondo, è questo il mio dubbio etico e non da oggi, ma dal momento in cui ho iniziato a lavorare con queste tecnologie per mantenere aggiornata e attuale l’offerta di CP SpA.

Credo che avere una progettazione intelligente non solo del prodotto ma del suo intero ciclo di vita, e promuoverne un uso responsabile da parte degli utenti possa essere di fondamentale importanza per ridurre l’impatto ambientale, che si tratti di una casa, di una lampadina, di un medicinale o di un alimento. Evitando al contempo investimenti su tecnologie superflue e mere speculazioni di marketing e finanza internazionale.

Siamo abituati a dare valore solo all’utilità pratica e al costo economico di ciò che usiamo, ci viene naturale. Non teniamo conto delle conseguenze della produzione e dell’uso dei prodotti durante tutto il loro ciclo di vita. Ripensare l’intero approccio, rendendolo più razionale e responsabile, tenendo in considerazione tutte le conseguenze sociali e ambientali di ciò che produciamo e consumiamo è molto importante per mettere in pratica e rendere concreto il concetto di sostenibilità di cui tanto si chiacchiera.

Penso che ad oggi non si sia realizzato pienamente tutto il vero potenziale del concetto di Industria 4.0, in particolare nelle PMI italiane, la maggiore forza produttiva nazionale. D’altra parte, se guardiamo da un punto di vista pratico gli aspetti culturali promossi dalle nuove rivoluzioni, è chiaro che proprio le PMI ne possiedono in modo naturale ampie caratteristiche: il rispetto e il coinvolgimento dei lavoratori, le migliori strategie per risparmiare energia e quindi rispettare il pianeta. È il loro naturale modo di essere, senza imposizioni dall’alto, e credo che questo sia il punto da cui partire.
Sarò sempre a fianco dei miei clienti nella migliore gestione delle sfide che si porranno davanti alla nostra vita d’impresa, con una visione chiara: le due entità di Industria 4.0 e 5.0 non vanno separate. Sono due facce della stessa medaglia, della stessa rivoluzione produttiva e culturale, e come tali vanno coltivate e fatte crescere in simbiosi.

Perciò sono convinto che Industria 5.0 vedrà, com’è giusto che sia, una lunga convivenza con gli elementi che caratterizzano Industria 4.0, forse fino al punto che, in un futuro non troppo lontano, verranno identificate come un’unica evoluzione del mondo industriale.
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